Solitamente, quando incontro qualche personaggio che mi stimola, non prendo mai informazioni preliminari riguardo la sua vita, perché ritengo sia molto più interessante scoprirlo direttamente dai suoi racconti.
Il mio è l’atteggiamento del bambino curioso, che non si fida del “sentito dire”, che ha imparato con l’esperienza a cercare dove la verità è nata e cresciuta, tralasciando le considerazioni di corridoio, quasi sempre molto distanti dalla realtà.
“Massimo, tolto il fatto di aver ascoltato alcune tue registrazioni, non conosco niente di te e del tuo percorso che ti ha portato ad essere uno dei più stimati batteristi sulla scena internazionale. Mi racconti come si diventa Massimo Manzi?”
“Vado!….Nato a Roma. Ho vissuto fino all’età di 20 anni ad Alatri, il paese di mia madre. Nel ’76 arrivai nelle Marche grazie ad un trasferimento di lavoro di mio padre e, a parte una breve parentesi ad Osimo, ho vissuto e vivo a Senigallia da ormai 40 anni.
La passione per la musica è nata in casa. Mamma aveva studiato pianoforte al Santa Cecilia e mio zio era un polistrumentista che capitanò per anni un’orchestrina di paese, dunque sono sempre vissuto in un ambiente saturo di note. E’ normale che quando sei circondato da gente che fa musica ti venga voglia di imparare a suonare uno strumento.
Le mie intuizioni infantili mi portarono a scegliere la batteria perché pensai che fosse lo strumento che faceva la differenza in una band.
All’inizio cominciai a sbattere su tutto quello che trovavo, ma fare di quella passione una scelta di vita era un semplice sogno, niente di più. I miei però s’accorsero di questa mia, chiamiamola propensione, e alla fine delle medie, per regalo, mi comprarono la classica Holliwood, il modello più economico, e anche un po’ scassato.
Qualche anno dopo a quello strumento ne seguì un altro più professionale, nel frattempo avevo fatto tanta pratica riproducendo la ritmica dei tanti dischi e musicassette che ascoltavo ogni giorno non appena tornavo da scuola.
Prima di trasferirmi nelle Marche, poco tempo dopo aver conseguito la maturità classica (cosa che feci più per far contenti i miei che per libera scelta), avevo comunque avuto qualche esperienza musicale nell’ambiente romano.
Ancora autodidatta frequentai per un periodo la Scuola Popolare di Musica del Testaccio, un corso dove si sperimentava la musica jazz non accademica, stile che in seguito divenne materia fondamentale anche in Conservatorio. Lì ebbi i primi rapporti professionali con Bruno Tommaso, personaggio con il quale poi ho collaborato tantissimo nel corso degli anni.
Arrivato a Senigallia iniziai a suonare con diverse formazioni, più che altro suonando musica da ballo nei locali in voga a quei tempi, primo fra tutti la mitica Rotonda a Mare.”
“Dunque fino ad un certo punto della tua carriera di jazz non se ne parla proprio, fatta eccezione dell’incontro con Bruno Tommaso.”
“ E’ vero, anche se penso che quel virus fosse latente ed aspettava che le mie difese immunitarie si indebolissero per scatenarsi con tutto il suo vigore.
All’inizio degli anni ’80 si verificò uno di quei fenomeni di cui la storia si nutre per attuare le sue metamorfosi, fatto che mise in discussione il mio futuro di musicista.
Sulla scia di quello che era già accaduto negli USA e nelle nazioni del nord Europa, anche qui in Italia ci fu l’esplosione delle discoteche e dei piano bar. La musica dal vivo subì una forte flessione nelle richieste, dunque le serate nelle quali venivamo chiamati calarono drasticamente di numero.
I DJ, più o meno approssimativi, sostituirono i musicisti veri, e parallelamente la musica “commerciale” prevaricò quella di qualità.
Me la vidi brutta, anche perché non guadagnando il sufficiente ricominciò la pressione dei miei che mi avrebbero voluto impiegato in un lavoro più sicuro, secondo loro, e non in balia della precarietà delirante del musicista sognatore.
Questi ed altri fatti contingenti portarono allo scioglimento degli Agorà, il gruppo musicale con il quale suonavo e che tanto avevano raccolto in termini di successo negli anni precedenti.
Mentre pensavo sul da farsi, fortunatamente (perché sono convinto che la fortuna c’entri) iniziarono ad arrivare in Italia i grandi nomi del jazz americano che ormai avevano acquisito una connotazione internazionale. Di solito si spostavano senza band, dunque richiedevano sul posto la ritmica: basso, chitarra, e naturalmente batteria.
Si presentò il momento che cercavo. Colsi l’occasione come un naufrago s’aggrappa al primo legno galleggiante.
Accompagnai i guru mondiali del jazz. Ti faccio solo tre nomi: Lee Konitz, Tal Farlow e Al Grey. Sempre a metà anni ’80 partecipai a due stages con i miei miti di tutti i tempi: Max Roach e Elvin Jones.
Per inciso ricordo quel periodo anche per una grossa fregatura che presi io e tutto il gruppo di Ancona con il quale suonavo.
Dovevamo accompagnare Gianni Nazzaro nell’intera tournee estiva quando, pochi giorno prima di partire, ci lasciarono a piedi senza contratto e con un furgone preso ad hoc tutto da pagare.
Dopo quell’esperienza decisi che non mi sarei mai più invischiato stabilmente in un gruppo Pop, un mondo troppo industrializzato che fa della musica solo un business, un mondo che calpesta feeling e ispirazione, tutti concetti troppo distanti dal mio credo.”
“Accennavi alla fortuna. Io lo chiamo Destino. Se è scritto che dobbiamo fare quella cosa lì, quella cosa lì prima o poi accade. Non c’è santi né madonne che lo possano impedire.”
“Già. Credo che funzioni così.
Iniziai a suonare nei templi romani e milanesi: Il Capolinea, l’Alexander Platz, il Music Inn. Cominciarono le prime partecipazioni ai Festivals con varie formazioni ed entrai stabilmente nella big band della nostra regione, la Marche Jazz Orchestra, e lì rincontrai Bruno Tommaso.
Le prime uscite all’estero: Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Austria, Messico ed altri paesi che, se fossi stato un bancario, avrei forse visitato da turista, non sicuramente da protagonista.”
“Ho visto sul Web che hai una produzione discografica gigantesca.”
“Sì, direi abbastanza grossa…ahah…Attualmente ne conto circa 160, buona parte delle quali con musicisti di grande spessore e ancora attivi: David Liebman, Kenny Wheeler, Eddie Gomez, per citare qualcuno, però il primo disco tutto mio l’ho registrato nel 2000, “Quasi sera”. Forse l’avrei potuto incidere anche prima ma ho preferito dormirci su. Di carattere sono un riflessivo, infatti a scacchi me la cavo discretamente bene.”
“ Ormai sei un *arrivato*, ma se guardi indietro riesci ad individuare un preciso memento che ha segnato la svolta, che ti ha fatto capire che ce l’avresti fatta?”
“Di momenti ce ne sono due, nel senso che credo di aver determinato il mio stile grazie all’ascolto di due colossi del jazz. Elvin Jones ad un concerto, e gli LP di Max Roach.
Quando 10 anni dopo riuscii a conoscerli di persona ad uno dei loro seminari che si teneva a Ravenna, furono proprio loro ad incoraggiarmi. Dopo che si erano esibiti altri batteristi, quando fu il mio turno cambiarono espressione e lì capii che la strada era quella giusta.
Sempre a Ravenna, nel 2003, accompagnai Pat Metheney in un concerto indimenticabile…di più non potevo chiedere.
In questi anni ho suonato con tutti, e tra gli italiani tanto con Felice Clemente e Vito Di Modugno. Non me ne vogliano gli altri se non li cito, altrimenti dovremmo scrivere un elenco telefonico.”
“Tra un concerto e l’altro un’intensa attività didattica, pubblica e privata. Oltre la tecnica, cosa consigli ai tuoi allievi?”
“Raccomando sempre di ascoltare di più. La tendenza attuale è quella di studiare troppo quello che è scritto sui libri a scapito dell’aspetto spirituale che la musica deve infondere e trasferire.
Questa maniera asettica di trattare i suoni determina spesso un’interpretazione meccanica dei brani, privi di anima, esenti d’emozioni, tutto il contrario dell’essenza musicale insomma.
Una mia frase ricorrente è: – La musica non ha per forza bisogno di noi batteristi. – Solo dando l’anima la nostra presenza è giustificata all’interno di un pezzo musicale. Questo è un concetto che ho fatto mio nel tempo, trasferitomi dai grandi maestri marchigiani con i quali ho suonato, come Renato Sellani, * Mimmo* Mancinelli, e il mitico maestro Giusti.
Per quanto riguarda lo stile, invece, è azzardato dare delle indicazioni perché la musica è anche sperimentazione. In più, il pubblico ha le sue preferenze, dunque, ad ogni platea la sua musica.”
“ Un’ultima curiosità Max, anzi due. Qual’è lo stato di salute del jazz oggi in Italia? E poi, visto che siamo quasi coetanei e siamo cresciuti con lo stesso swing nelle orecchie e nelle viscere, tornerà il periodo aureo della musica che ha costellato il firmamento della nostra giovinezza?”
“Attualmente il jazz va forte, sia come qualità che come numeri. Abbiamo tanti giovani promettenti che si stanno mettendo in luce, anche grazie a collaborazioni con musicisti già affermati. Poi c’è la fascia di mezza età, alla quale appartengo, che continua ad esprimersi con grandi soddisfazioni. Qui da noi, per esempio, c’è la Colours Jazz Orchestra gestita da Massimo Morganti che sta andando alla grande, e richiama musicisti provenienti un po’ da ogni dove. Comunque, in generale, il jazz ha il suo nutrito numero di proseliti ed esecutori.
Ovviamente la situazione economica attuale sta incidendo negativamente sulla larga diffusione, ma questo vale sia per la musica che per la cultura in generale, non è un problema precipuo del jazz.
Quello che abbiamo vissuto io e i miei colleghi negli anni ’90 sarebbe impensabile realizzarlo in questo momento, per cui la tendenza è quella di creare buone produzioni sul posto, limitando le spese, e diffonderle al meglio.
Un esempio di ciò potrebbe essere un lavoro che ho fatto circa un anno fa, un disco con Giacomo Uncini, edito da Notami, * Indian Summer*. Nel quartetto c’è anche un chitarrista romano, Carlo Petruzzellis, e l’attuale polistrumentista di Pat Metheny, il pisano (ma vive negli USA) Giulio Carmassi. Abbiamo economizzato quanto possibile, ma poi ci siamo dati da fare per farlo girare.
Volendo rispondere alla tua seconda domanda ti dico solo che è da tempo che me la faccio anch’io, ma quando mi guardo intorno penso solo che abbiamo imboccato una strada senza ritorno.”
Siamo stati fortunati Maestro. Quel trentennio ’70, ’80, ’90 è stato da “strappamutanne” musicalmente parlando, e non solo.
Peccato per chi non c’era. Si potrebbe usare la stessa frase che scrisse un buontempone con una bomboletta sul muro di un cimitero, a Napoli, l’anno in cui vinsero lo scudetto con Maradona:
“ Che ve sete persi! ”
Al prossimo concerto maestro…Un abbraccio grande Max!
Mamo
ph dal Web