Ritorno dal Futuro: ricordi dei Fratelli Campioni.

Seduto ad un tavolo un po’ in disparte, mentre l’andirivieni iniziava ad approssimare una data soglia d’eccitazione, per passatempo mi allenavo ad intuire i pensieri mattutini dei vari tizi che entravano per consumare l’arcaica colazione della domenica, come se, a globalizzazione avvenuta, ormai non fosse ogni giorno domenica. Per lo più occhi liquidi e volti privi di qualche espressione che facesse trasparire la minima giunzione sinaptica. Gente uscita di casa più per onorare il quadratino rosso disegnato sulla pagina del calendario che per reale entusiasmo dovuto al giorno di festa. Se avessi dovuto scrivere una novella in quell’istante l’avrei intitolata L’Atto di presenza.

Mi tornò in mente una frase riletta la sera prima:

“Maggiore è l’attenzione che concediamo alle coincidenze, maggiore è la frequenza con cui ci appaiono, e quindi maggiore sarà la nostra capacità di leggere i messaggi che ci trasmettono sulla direzione da dare al nostro viaggio terreno.”

 

I due fratelli che attendevo entrarono nella pasticceria quasi zampettando:

“Buongiorno Mamo! Eccoci qua. E’ tanto che aspetti?” fece Michele sorridendo,  mentre tutt’e due s’avvicinavano alla mia postazione, “Oh! Io ho fatto nottata con gli amici, ma sono stato puntualissimo: 5 alle 9 ero qui davanti al bar. Lui invece” indicando Luca “come al solito rispetta gli appuntamenti alla press’a poco.”

“Giusto.”, risposi, “Heisemberg: Principio d’Indeterminazione.”

Chiedemmo all’assonnata fanciulla dietro al banco tre caffè e nell’attesa che ce li servisse argomentammo sulle probabili cause che avevano decretato il lieve ritardo di Luca, che nel frattempo se la rideva. Consumate le bevande, dietro mio invito ci trasferimmo in un angolo della sala fumatori. Lì avremmo parlato più comodamente.

“Voi tra un’oretta andrete ad allenarvi. Io ho già dato quello che potevo qualche decennio fa. Ora per me è giunto il momento di riprendere fiato e con il tabacco acceso mi riesce benissimo.”

 

Il piacere di avere a che fare con i ventenni deriva dal fatto che puoi permetterti di pronunciare qualsiasi coglioneria senza per nulla mettere a repentaglio la sostanza dell’attimo, ammesso che quei ventenni con i quali ti confronti abbiano mantenuto integra e ben radicata l’Origine del loro Essere.

Per Origine dell’Essere intendo la Memoria del Non Luogo-Non Tempo dal quale tutti proveniamo, che nei bambini assume la massima Risonanza. Ridere o sorridere su qualsiasi cosa è una loro prerogativa. Con il passare degli anni, e anche questo è un Mistero svelato, i più perdono queste qualità. Le relazioni si fanno progressivamente più contorte e macchinose, come se la complicazione di sistemi semplici producesse qualche apprezzabile beneficio per l’umanità intera.

“Quanto è più saggio dell’uomo l’animale, che conosce la misura del suo bisogno, mentre l’uomo la ignora”, recitava Democrito.

 

Michele iniziò a raccontare per primo, rispondendo ad una mia domanda:

Come si diventa un Campione?

 

“L’episodio che mi capitò quando avevo 18 anni, quando stetti 72 ore in coma all’ospedale a seguito dello schiacciamento del fegato procuratomi da un trattore in manovra, sono certo, fu il momento decisivo, quando s’accese la Luce. Quei 3 giorni in sospensione mi convinsero che la mia vita sarebbe stata veramente vissuta solo a patto di dare pieno sfogo alle mie sensazioni interiori. Non è che prima non ci pensassi, ma fu al risveglio da quello stato-non stato che maturai la determinazione che non avrei potuto fare altro se non quello che mi piaceva di più: marciare. Marciare è meglio che marcire, pensai.”

 

Per la seconda volta quella mattina, dopo aver ascoltato le parole di Michele, Deepak Chopra mi rimbombò in testa: “Maggiore è l’attenzione che concediamo alle coincidenze, maggiore è la frequenza con cui….”

 

Poi continuò:

 

“Ho cominciato a corre più o meno all’età di 13 anni. Prima, un po’ come tutti i bambini giocavo a pallone, più per stare assieme a loro che per reale vocazione. In prima media la scuola organizzò una Campestre e con mia grande sorpresa la vinsi. Fu un’emozione che non conoscevo, che scatenò in me una tempesta metabolica. La vittoria è femmina: rapisce e incanta!

I giorni seguenti non riuscivo a dimenticare quella sensazione d’appagamento, di soddisfazione che si prova ad essere un Numero Uno: pensai che dovevo per forza continuare a correre per riprodurre ancora altre occasioni d’estasi.

Fu una scelta deliberata, tutta mia, quella di dedicarmi a tempo pieno allo sport. Mio padre, per dirti, era stato un atleta però non mi aveva mai spinto a praticare atletica a tutti costi; sport sì, ma non necessariamente l’atletica. Mamma, che è sempre stata un po’ di più larghe vedute, men che meno. Direi che sia io che Luca siamo sempre stati abbastanza liberi di scegliere per il nostro meglio anche se, essendo io il primogenito, qualche prova in più su di me i miei l’hanno fatta, ma credo sia normale in ogni famiglia: il primo fa da cavia e il secondo beneficia dell’esperienza acquisita (facemmo tutti una bella risata…). In verità, agli inizi papà non è che fosse proprio entusiasta di questa mia scelta e ciò anziché frenare il mio entusiasmo moltiplicò la mia tigna. Dovevo dimostrargli che avevo ragione e fu un ulteriore motivo per insistere.

 

I primi allenamenti di qualità nel mezzofondo in pista, però, ridimensionarono quasi subito la mia autostima in maniera quasi drastica.

Lì c’era gente tosta, ragazzi come me che si allenavano da tempo e che facevano sul serio.  Ogni 4/5 giri di pista mi sverniciavano, la qual cosa non poteva non farmi venire ragionevoli dubbi sulle mie capacità effettive. In ogni caso la voglia di dimostrare rimaneva superiore agli attacchi di sconforto che ogni tanto m’assalivano e, anche se il morale non era alle stelle, il giorno dopo calzavo le scarpette e ricominciavo i miei turni. Fortuna volle che una domenica la Società  alla quale ero iscritto mi schierasse in una gara di Marcia, non tanto per particolari doti dimostrate, ma per coprire un buco di Campionato. Fu amore a prima vista.

Il particolare gesto atletico, l’eleganza delle sequenze contatto-stacco, la personalizzazione dei movimenti mi piacquero tantissimo. Anche in quel caso capii subito che c’era moltissimo da lavorare, però se mi fossi allenato come un matto forse avrei potuto compensare il gap che mi separava da quelli che normalmente vengono definiti talenti puri.

A te sembrerò un po’ svitatello, ma la fatica m’è sempre piaciuta. Più lavoro e meglio sto. Non è neanche una questione di cronometro, sai? E’ che quando rientro da un allenamento e so di aver consumato anche l’ultima goccia d’energia, c’è un momento, mentre mi rilascio, che mi sembra di volare. Una sospensione totale. Ovvio che tutto il lavoro svolto poi ha ripercussione sui tempi in pista, ma il piacere di spremermi mi fa stare troppo bene, fisicamente e soprattutto mentalmente. Ogni volta, terminato uno dei miei allenamenti, provo un senso di pace che mi è difficile riprodurre in altre situazioni.

 

Dopo qualche tempo che mi allenavo regolarmente arrivarono le prime vittorie nei Campionati Regionali, il che rafforzò in me la convinzione che il lavoro costante, con carichi via via sempre un po’ più importanti, produceva i frutti che avevo sognato all’inizio. Quando cominci a fare qualcosa, qualsiasi cosa, ovvio che ti auguri i migliori risultati possibili, ma è solo attraverso la continua pratica che puoi raggiungere la soglia limite del momento e organizzarti per superarla. Se non demordi, se non abbandoni, ogni volta fai un passetto in più in avanti e acquisti sempre più fiducia nelle tue potenzialità.

 

Poi un giorno, nel 2014, accadde quell’incidente che t’ho accennato.

Già da quando avevo 14 anni, d’estate papà mi mandava a fare dei lavoretti di giardinaggio per dare un mano a dei suoi amici che lo facevano di professione, un po’ per farmi guadagnare dei soldini da spendere in piena autonomia, un po’ per farmi capire quale sarebbe stato il futuro che m’aspettava quando sarei diventato più grande: un lavoro.

Riflettei più di una volta sull’utilità di tale impiego del Tempo e pensai che non avrei potuto accettare il grigiore di un’esistenza fatta di orari fissi, mansioni prestabilite e tutta una serie di schemi fatti da altri che non avevano nulla a che spartire con la mia voglia di vivere. Mi dissi che avrei fatto di tutto pur di non  stazionare nella Terra di Mezzo come la maggior parte della gente che conoscevo. Tutto è lecito, per carità, ma credo che sia anche giusto conferire quanta più dignità possibile alla propria esistenza impiegando i mezzi che ognuno crede di possedere e dare un senso al tutto. Penso che ognuno debba almeno provarci. Siamo uomini, non automi.

A questo punto mi dirai che mi sto contraddicendo; penserai che voglia dire che essere un atleta professionista comporti impegni meno gravosi rispetto a quelli dell’uomo della strada, ma ovviamente non è così. Quello che vorrei spiegare è che ciò che comunemente vengono considerati sacrifici (orari ferrei, dieta calibrata, allenamenti infiniti, vita regolamentata,…..), per uno sportivo serio sono un piacere, nel senso che la consapevolezza che tutto ciò che fa in più servirà un domani ad ottenere risultati migliori gli rendono quasi ridicolo il prezzo di qualche piccola rinuncia. Vivere invece a modo d’altri, quelli sì che sono veri sacrifici. Poi, per carattere, a me piace dare Tutto nella cosa che ho scelto di fare e sulla quale sono concentrato, sennò non mi sento Vivo. E’ una questione di priorità, penso.”

 

Michele Antonelli

 

“Sì sì, lui è fatto così.”, intervenne Luca, “Se non dà il 120% non è contento.

E’ un Bulldozer, una macchina schiacciasassi.”

 

“Per te è diverso?”, domandai:

 

“Un po’ si e un po’ no. Siamo due caratteri differenti, il che ci fa interpretare la stessa realtà da punti d’osservazione distinti, non distanti ma distinti sì. Non che dove uno vede bianco, l’altro veda nero, ci mancherebbe, ma è l’atteggiamento nei confronti dello stesso evento che ci distingue un po’. Ti faccio un esempio: mi considero figlio d’arte due volte. Da piccolo seguivo le imprese di papà e subito dopo quelle di Michele. Mio fratello è sempre stato per me un esempio da imitare. Ho iniziato a gareggiare grazie a lui, anche per cercare di emularlo, questo non lo nascondo. Vuoi sapere una cosa curiosa? Se lo ascolti quando parla, ancora oggi, è uno che costantemente si considera uno scarso, quando in verità è andato sempre fortissimo, altrimenti non sarebbe arrivato ad essere tra i marciatori più forti in circolazione. Penso che la sua innata modestia, paradossalmente l’abbia aiutato molto. Anche quando è al top trova sempre qualcosa che vorrebbe  migliorare. Questo suo modo di essere m’intrigava molto all’inizio e m’affascina tutt’ora.

 

Sulla scia delle sue performance cominciai anch’io con la marcia all’età di 10/11 anni. Andavo anche caruccio, tant’è  che da allievo conquistai diversi podi a livello nazionale e nel Campionato Italiano, ma quando arrivai intorno ai 15 iniziai a mettermi in dubbio. Lo Sport mi piaceva moltissimo, però c’era un tarlo che mi rosicchiava in testa: Stavo facendo marcia perché mi piaceva davvero, o per scimmiottare mio fratello? Stavo praticando la stessa disciplina per ricalcare le sue orme o perché era una mia reale aspirazione? La fatica piaceva anche a me, ma forse avrei potuto beneficiare dei suoi effetti anche in un’altra specialità. Dopo un periodo di pensieri abbastanza travagliato decisi di provarmi nelle gare di mezzofondo e fondo. Attraversai due anni di grandi difficoltà, costellati da ripetuti infortuni prima di iniziare a vincere. Marcia e Corsa, nonostante siano entrambe discipline basate sulla resistenza, coinvolgono muscoli, tendini e gesto atletico completamente differenti, dunque dovetti pagare lo scotto di un lungo adattamento prima di ottenere dei risultati.

Luca Antonelli

 

Nonostante le difficoltà fisiche, e qualche dubbio che puntualmente s’affacciava alla mia coscienza, continuavo a ripetermi che in ogni attività c’è bisogno di un periodo d’adattamento, di rodaggio, e che se non avessi avuto fretta prima o poi gli eventi si sarebbero sistemati da soli. Nel frattempo mi consolavo con altre storie che mi piacciono: Dopotutto, pensavo, se non riuscirò a sfondare nell’atletica non è la fine del mondo. Riuscirò in qualcos’altro.

Forse è questa la differenza basilare tra me e Michele: quando lui fa una cosa, fa quella e basta e non ammette alcuna distrazione che sia al di fuori della cosa stessa. La mia visione, invece, mi porta a considerare più possibilità contemporaneamente, il che mi rende un po’ più leggero l’attimo di difficoltà  specifico.

 

Poi c’è anche un altro discorso che facevo a suo tempo pure al mio allenatore:

nel mezzofondo, la mia specialità, è relativamente più facile diventare un atleta professionista anche senza entrare in un gruppo sportivo nazionale, per il semplice fatto che è una disciplina molto più riconosciuta rispetto alla marcia, dunque con montepremi abbastanza sostanziosi e le gare che si svolgono durante l’arco dell’anno sono tante, ma tante di più.  Se raggiungi un buon livello lo puoi fare per mestiere e guadagnarti da vivere anche senza essere il Campione del Mondo, quindi con un buon allenamento qualcosa di buono avrei potuto combinarlo comunque. Nella marcia è diverso: o sei nel Gotha, o fai la fame. So che non è giusto, ma è così. Inoltre, a conferma del mio modo  di vedere diverso rispetto a quello di Michele, per me l’attività fisica anche tosta, non è finalizzata per forza all’ottenimento di un risultato specifico, ma fa parte del mio Pacchetto della Felicità. Il lavoro svolto ogni mattina in allenamento mi colloca in una dimensione di Benessere che mi permette di svolgere tutte le altre attività in uno stato di pieno rilassamento. Ovvio che poi ci sono anche i risultati in gara che quando vai bene ti riempiono di soddisfazione e quando vai male ti fanno un po’ pensare, ma al di là della competizione pura, il correre è per me un vero toccasana nel quotidiano. Non saprei farne a meno. Alcuni fanno uso di stupefacenti per sentirsi bene, a me serve la Corsa.

 

Accesi un’altra sigaretta e prima di passare alla domanda successiva non potei non fare una comparazione con altri Campioni di altre discipline che già conoscevo: Tutti uguali, pensai. Cambiano i tempi, cambiano le specialità, cambiano anche i caratteri precipui, ma tutti quelli che sono riusciti a raggiungere la vetta, la loro vetta, hanno in comune un rapporto strettissimo con quel Non so Che al quale ad un certo punto della mia vita ho dato il nome di Coscienza. I pensatori, i filosofi, i mistici, gli asceti, ma anche gli artisti in generale, chiamiamoli i Sensibili di tutte le epoche, e negli ultimi cento anni anche i fisici quantistici, hanno sempre   parlato più o meno di Consapevolezza, un livello superiore di sentire che permette un agire straordinario in determinate condizioni. Secondo me lo stato di Coscienza è ancora più al di là, più immerso nel Tutto: è il Tutto. E’ quella trasmutazione, quel salto energetico che permette ad un elettrone, ad esempio, di scomparire da una condizione e comparire in un’altra senza che la transizione tempo-spaziale sia misurabile. E’ un fenomeno istantaneo.

Ecco quello che ho riscontrato nei Campioni: nella vita di tutti loro c’è stato un preciso momento, un Istante appunto, nel quale hanno realizzato che comunque ce l’avrebbero fatta e da quell’attimo in poi non si sono più fermati. Guarda caso, ma caso non è, quell’istante è scaturito da una Crisi profonda che tutti loro sono stati costretti ad affrontare.

 

Oltre che la scontata domanda sugli obiettivi da raggiungere di lì a poco, chiesi loro quali fossero state le più grandi delusioni e le più belle gioie.

Delusioni e gioie a livello sportivo a parte, le risposte che ricevetti mi confermarono che quand’erano fuori dal loro Stato di Grazia, dunque nella vita di tutti i giorni, erano ragazzi normali, sicuramente meno timorati dell’avvenire rispetto ai loro coetanei, ma comunque coinvolti nelle medesime situazioni nelle quali tutti i ragazzi della loro età devono quasi necessariamente sperimentarsi. Ovviamente mi riferisco ai bravi ragazzi.

 

A questo punto, prima di chiudere questo racconto, m’è venuto in mente che sarebbe preferibile che vi presentassi con chi e di chi ho parlato:

Luca Antonelli, 21 anni, miglior Maratoneta Italiano nel 2018 “Under 23”.

Attualmente impegnato nella preparazione dei prossimi Campionati Italiani di Mezza Maratona di Ottobre e nella Maratona di fine anno, sempre in Italia.

 

Michele Antonelli, 24 anni, Campione Italiano di Marcia nella 50 Km nel 2016. Medaglia di Bronzo in Coppa Europa nella 50 Km di Marcia nel 2017.

7° ai Campionati Mondiali a Squadre di Marcia 50 Km nel 2018.

Atleta della Nazionale di Atletica Leggera, attualmente impegnato negli appuntamenti Italiani e Internazionali previsti dal calendario.

 

Quando ci salutammo quella mattina di quasi un mese fa, li avvertii che avrei impiegato del tempo prima di pubblicare queste quattro righe. Un po’ per disabitudine alla disciplina, ma principalmente perché ormai da un po’ ho imparato ad attendere il segnale per fare ciò che sento e non che devo.

Ci abbracciammo con l’accordo che ci saremmo rivisti presto e li seguii con lo sguardo mentre facevano ritorno nel Futuro, dove “maggiore è la frequenza con cui le coincidenze appaiono, e quindi maggiore è la nostra capacità di leggere i messaggi che ci trasmettono sulla direzione da dare al nostro viaggio terreno.”

 

Mamo