I PENSIERI DI MAMO: Novecento

Che mestiere fai?: “Il critico d’arte.”

 

Ma vaffanculo, va’! Che cazzo di mestiere è? Puoi esprimere le tue opinioni, quello è un tuo diritto, ma che te ce pago sopra, ebbèèè! Se sai fare fai, sennò impara, ammesso che tu sia capace, altrimenti rassegnati. Io i critici non li pago. Se stimo qualcuno posso ascoltare le sue opinioni, ma non caccio un bajocco….

Altra figura è lo storico. Sgarbi, per fare l’esempio di un personaggio noto a tutti, è apprezzabilissimo come storico. Certo, durante le argomentazioni ce schiaffa anche qualche sua valutazione personale, ci sta, ma fondamentalmente descrive l’uomo che ha composto quell’opera, le sue vicende, il suo vissuto, le sue peripezie, la storia dell’artista insomma.

Già quando si descrivono i pensieri di uno che fa, a meno che non l’abbia lasciati scritti, si è completamente fuori de zocca. Che cazzo ne sai quello che pensava in quel momento. Te l’ha raccontato? T’ha lasciato una registrazione video? T’ha mandato un telegramma? (Esistono più i telegrammi?…Adesso tutte mails, anche per andare a cena…ahahah….)

Qualsiasi opera, che sia figurativa, letterale, musicale, può colpire o no, può piacere o no, ma ogni speculazione sull’oggetto è prettamente gratuita e decisamente relativa. La storia, ammesso che uno la legga, insegna. Prendiamo uno per tutti: Van Gogh. Finché era in vita non ha venduto un quadro. Vent’anni dopo la sua morte, o giù di lì, era il pittore più quotato al mondo: la varianza!…eee…dove stavano “i critici d’arte”, gli scienziati, li capisciò, mentre campava e componeva?….ahahah…….

Qualche giorno fa m’ha chiamato un caro amico pittore chiedendomi se potevo scrivere qualcosa su di lui. Un breve testo che andrà utilizzato per una brochure che verrà distribuita in un prossimo evento dove saranno esposte anche le sue opere. Ovviamente, con grande piacere, ho scritto. E’ caruccio quando un amico ti ritiene capace di certe responsabilità.

L’opera sulla foto me la regalò anni fa e la utilizzai come immagine per la copertina del primo numero di MG.

 

 

NOVECENTO

“Credo fosse l’estate del 2011. Ero stato a San Severino a trovare mia madre che non stava troppo bene. Dopo aver passato la mattinata con lei, intorno le 13,30 andai alla stazione per vedere se ci fosse un treno che mi avrebbe riportato a casa. Consultando il tabellone degli orari mi resi conto che avrei dovuto aspettare per più di un’ora.

Mi guardai in giro. Quel posto che solitamente frizzava di studenti che andavano e venivano con i loro zaini in spalla era completamente deserto. Era tempo di pausa. Tutto fermo quel giorno fatto di un tempo immobile.

Non avevo fame. Solo sete. Le ore passate con mamma mi avevano svuotato, arso. Vedere quella donna energica, che ne aveva passate tante ma che non aveva mai ceduto alla tentazione dell’abbandono, quella donna che aveva considerato sempre me e mio fratello “i suoi bambini”, e come tali ci coccolava, nonostante avessimo superato entrambi i cinquanta, vederla ora debole e dolorante mascherare i suoi disagi, constatare quanto il tempo consumi anche gli spiriti più dotati, mi aveva scavato le budella.

Era caldo quel giorno, maledettamente caldo. Neanche l’aria aveva voglia di fare mosse.

M’attaccai alla cannella della piccola fontana della stazione. Bevvi due sorsate per togliere quel sapore di secco che avevo in bocca. Anche l’acqua era calda, quasi quanto i pensieri che mi facevano ribollire la testa: dovevo rimanerle accanto ancora un po’? Cosa avrei potuto fare per risollevarla? Almeno moralmente. Dove avrei trovato le energie, io che ne ero completamente privo in quell’istante?

Solo i fantasmi della mia mente non smettevano di agitarsi. Troppo.

Mi sedetti su una panca all’ombra della pensilina e accesi una sigaretta, la cinquantesima di quella mattinata. Appoggiato allo schienale provai a distogliere la vista da dentro a fuori. Avevo bisogno di luce, di ossigeno. Di leggerezza.

Non so da dove, forse da una siepe lì accanto, sbucò una farfalla gialla. Quasi mi venne addosso. Sfiorò le mie gambe, un braccio, e poi il viso. Svolazzò tra le rotaie arrugginite posandosi per un istante su una traversina affumicata dal gasolio delle littorine, poi scomparve sopra il tetto. Mi alzai per seguirla con lo sguardo ma fu inutile. Sparita con la stessa velocità con la quale era comparsa. Una nuvola.

Dove ero stato tutto quel tempo? Eppure da piccolo ci giocavo nei campi vicino casa. Perché avevo dimenticato come volano le farfalle? Dove ero vissuto? Avevo vissuto?

Tornato a casa cominciai a disegnare e a dipingere farfalle dappertutto, per giorni, settimane, mesi. Le farfalle erano diventate la mia ossessione, la mia droga. Fosti tu poi a dirmi che la farfalla è il geroglifico della libertà. Ma libertà da che? Io che non vivo se non provo emozioni forti, belle o brutte che siano, ma devono sconvolgermi, catturarmi, scuotermi, strapazzarmi, quasi distruggermi. E’ questa la libertà? Le emozioni rendono liberi? Gioire, soffrire, disperarsi, quasi annientarsi a volte, tornare a sorridere perché vedi un fiore, per una pacca su una spalla, per un sorriso di donna, questa è libertà?…Forse sì.”

Questo è l’amico Silvano, Silvano Mazzarantani. Questo è NOVECENTO.
(Silvano Mazzarantani)
Mamo

ph Mamo